giovedì 2 giugno 2011

Prussia orientale 1944: arrivano i Russi!

Dopo che la guerra di Hitler era stata persa, milioni di persone di etnia tedesca che vivevano nelle regioni che oggi fanno parte dell’Europa orientale furono espulsi – spesso in circostanze orribili. È stato appurato che almeno 473.000 persone morirono durante la fuga. I crimini del nazisti erano stati di gran lunga peggiori, ma la sofferenza delle persone di etnia tedesca fu immensa.
Era stata ingannevolmente una bella estate. Mai fino ad allora la luce della Prussia orientale sembrava così luminosa, il cielo così terso, il paesaggio così vasto come nel 1944, scrisse sul suo diario Hans Graf von Lehndorff, un medico e cronista. Tuttavia, le strade erano già piene di colonne di rifugiati, tedeschi della Lituania, che avevano abbandonato il loro bestiame nelle campagne. Luci tenui, echi di detonazioni lontane. A volte di notte, una luce rossa era visibile nella parte orientale, dove le città di confine lungo il fiume Niemen andavano a fuoco: segnali inequivocabili che le truppe sovietiche erano inesorabilmente più vicine.
Arrivarono il 21 ottobre. I soldati dell’Armata Rossa spingendosi sino al villaggio di Nemmersdorf nella Prussia orientale, massacrarono circa 30 persone tra anziani, donne e bambini, lasciando dietro di loro una scia piena di cadaveri. Le riflessioni sulla luce del cielo e sulla campagna furono sostituite dallo choc. Quando a metà gennaio il fronte della Prussia orientale crollò, la violenza e la distruzione messa in atto dalle truppe sovietiche superò qualsiasi sofferenza che i tedeschi avevano sofferto in precedenza. Gli abitanti della Prussia orientale furono i primi a fuggire in preda al panico più totale.

Un inedito trasferimento di popolazioni.

Ma l’ondata di terrore presto travolse tutte le aree abitate dai tedeschi dal Baltico al Danubio. La guerra totale combattuta spietatamente da Hitler era terminata. Adesso il momento della punizione stava prendendo vita ovunque. L’esercitò dell’Armata Rossa si vendicò per l’incendio della Madre Russia e per i suoi milioni di vittime, vendicò la Polonia, dove i tedeschi si incaricarono con incredibile zelo della ‘distruzione fisica’ decretata dai dittatori nazisti, e si presero la rivincita per i sei anni di sanguinose repressioni dei Cechi. Gli jugoslavi, che stavano tormentando decine di migliaia di membri della minoranza tedesca, prima di cacciarli dal paese, avevano gia sperimentato in che modo gli occupanti avevano condotto la guerra anti-partigiana: attraverso il massacro dei civili.
In Europa orientale milioni di tedeschi incontrarono lo stesso tragico destino, pagando con la vita e con la salute i crimini della Germania nazista. Furono braccati, umiliati, violentati, bastonati a morte, o portati via come schiavi. «Una tempesta di rappresaglie, vendette e odio travolse la terra», scrisse lo storico Klaus-Dietmar Henke.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ebbero luogo spostamenti senza precedenti di popolazioni che abitavano nella parte centrale dell’Europa orientale. I tedeschi andavano avanti e indietro, come delle pedine, a seconda dei capricci dei vincitori e delle loro mosse politiche. Ma la gente in fuga dall’Armata Rossa era già a conoscenza che gli Alleati avevano già concordato con il governo polacco in esilio una mano ad una grossa parte di territorio dalla Germania orientale alla Polonia per reinsediare i tedeschi che vivevano lì.
Tutti coloro che non riuscirono a fuggire in tempo finirono per diventare vittime delle frenetiche espulsioni che furono effettuate fino al luglio del 1945. Il reinsediamento pianificato di tedeschi e persone di etnia tedesca provenienti dalle aree della Germania dell’Est e dai Sudeti iniziò nel gennaio del 1946. In tutto, circa 14 milioni di tedeschi avevano perso la loro casa.

«Una sofferenza inimmaginabile».

Come Lehndorff annotava nel suo diario, «le colonne dei rifugiati segnate da una sofferenza immaginabile» cominciarono a muoversi verso ovest nel gennaio del 1945 in poi, passando dalle località distrutte, dalle macerie della guerra e dai mucchi di cadaveri. Più tardi, queste marce si incrociavano con altre che si muovevano nella direzione opposta; centinaia di migliaia di persone erano state sorpassate dall’Armata Rossa e ora cercavano di tornare nelle loro città di origine.
Uno di questi rifugiati della Germania orientale era Hermann Fischer, che in seguito racconto le immagini di orrore che trovò ritornando al suo villaggio:
«Ho visto le tombe di 11 persone nella parte più bassa del paese, tra cui quella di Paul Bisler, che fu sepolto di fronte alla sua casa all’alba (era stato assassinato o colpito a morte, e il suo corpo in decomposizione fu trovato nel letto di uno studente, Max Neumann). A casa di Neumann, c’erano le tombe di due donne a cui era stata tolta la vita. I Wersels avevano preso con sè il bambino di una di loro. Gustav Anders-Horn era stato colpito a morte. Il suo cadavere era stato mangiato dai maiali. Altsitzer Gruhn era stato colpito a morte. C’erano tombe ovunque. Il villaggio sembrava triste e desolato, c’erano macerie ovunque, mobili fracassati, porte, finestre strappate dai cardini. Il vento ululava attraverso gli edifici e le case aperte».
Si parlava ovunque di convogli carichi di carri che trasportavano sfollati, gente mezza morta di fame, che andavano in tutte le direzioni. Orde di bambini, abbandonati o separati dalle proprie famiglie, languivano nelle foreste ad est. In qualche modo questi ‘bambini-lupo’ erano sopravvisuti spostandosi da una fattoria crivellata di colpi a quella successiva. Il destino di questi circa 5.000 bambini rappresenta un episodio particolarmente straziante confermato da circostanze che ricordavano i racconti della Guerra dei Trent’anni, l’ultima in europa che aveva visto uno spopolamento di questa portata.
Migliaia di persone non sopravvissero durante i loro spostamenti, le espulsioni o la prigionia. Morirono di fame, di assideramento, per le ferite o per le epidemie. Fu quello che avvenne anche nella famiglia Lehndorff. Il 25 gennaio nella Prussia orientale i soldati dell’Armata Rossa sequestrarono i beni di famiglia. «Nel caos che ne seguì», ricordò Lehndorff nel suo diario,«mio fratello venne gravemente ferito da una coltellata. Mia madre fu solo in grado di bendarlo in modo provvisorio. Poi vennero i russi, e gli chiesero chi fosse, e spararono a lui e a mia madre». Che cosa gli importava che la madre in passato fosse stata arrestata dalla Gestapo?

«Una tragedia su scala prodigiosa».

Presto anche i vincitori si resero conto che stava accadendo qualcosa di grave. Il primo ministro britannico Wilston Churchill definì l’esplulsione di massa dei vinti: «Una tragedia su scala prodigiosa».
Eppure Churchill e il presidente americano Franklin D. Roosevelt avevano discusso del reinsediamento della popolazione della Germania e della restituzione delle proprietà ai tedeschi ancora prima che gli Stati Uniti dichiarassero ufficialmente la guerra a Hitler.
Nell’estate del 1941, i due uomini si incontrarono sulla corazzata HMS Prince of Wales, ancorata al largo delle coste di Terranova, in Canada, per mettersi d’accordo sui dettagli della Carta Atlantica, per un nuovo ordine politico nel dopoguerra.
Una volta che avessero sconfitto il nazismo, l’autodeterminazione e gli altri diritti che erano stati cancellati con la violenza, sarebbero stati ristabiliti in Europa. Tuttavia, non ci sarebbe dovuto essere nessun cambiamento territoriale che non tenesse in conto «i desideri espressi dai popoli interessati».
I rappresentanti polacchi e cecoslovacchi rimasero brevemente esterefatti, ma poi respinsero con veemenza quello stesso principio. Il presidente ceco in esilio Edvard Benes, per esempio, chiese il reinsediamento forzato dei tedeschi e propose perfino con successo quella venne definita «una dolorosa operazione». Gli Alleati gliela diedero. Affermarono che la Carta non era necessariamente applicabile alla Germania. Dopo tutto, non era «un accordo o un contratto con i nostri nemici». Già nel settembre del 1942, il ministro degli Esteri britannico Anthony Eden disse ai cechi che il suo governo avrebbe «accettato un accordo di massima sul reinsediamento».
Nel frattempo, Roosvelt aveva indicato ai polacchi che non era in progetto un reinsediamento.
Quando gli alleati vittoriosi si riunirono a Potsdam nell’estate del 1945 per stabilire le nuove frontiere degli Stati europei, Stalin irriverente fece notare che non c’erano tedeschi a sinistra dei territori che erano stati restituiti alla Polonia. «Certo che no», rispose William Leahy, Consigliere del Presidente Harry Truman, «I bolscevichi li hanno uccisi tutti».

Nessun interesse a proteggere gli istigatori barbari.

Il progetto di Hitler per l’Est, di cui la politica dello ‘spazio vitale’ (Lebensraum) era solo una parte, aveva previsto la germanizzazione di tutte le terre dai Paesi baltici fino alla Crimea, e l’espulsione e la riduzione in schiavitù di 30 milioni di polacchi e altri slavi, così come, secondo una nota ministeriale, «la distruzione di indesiderabili settori razziali della popolazione». Date le circostanze, gli Alleati non erano particolarmente interessati a proteggere i barbari istigatori della guerra dalle rappresaglie dell’Est.
Tuttavia, i negoziatori occidentali erano preoccupati di avere fatto troppe concessioni ai sovietici. «Mi dispiace di non essere stato in grado di vedere alcun segno di fermezza da parte nostra», commentò il Segretario di Stato David Byrne, nell’agosto del 1945, dopo la Conferenza di Potsdam. Fu così che le potenze occidentali non riuscirono ad infilare nell’Articolo XII dell’Accordo di Potsdam la condizione che il ‘trasferimento’ in Germania della popolazione tedesca doveva avvenire «in maniera ordinata e umana».
I primi bagni di sangue nella Prussia orientale, nell’autunno del 1944, dimostravano chiaramente che ciò non veniva applicato nelle zone ad est della linea Oder-Neisse. Il Ministro della propaganda nazista, Josef Goebbels, utilizzò il massacro di Nemmersdorf per fomentare l’odio contro le ‘bestie’ dell’Unione Sovietica.
L’Armata Rossa avanza in tutta l’Europa orientale più velocemente di quanto la gente potesse fuggire attraverso la neve e il freddo pungente. Presto scoppiò l’inferno nelle province orientali della Germania.

«L’inizio di una terribile sofferenza».

Una donna che arriva da Heiligenbeil (oggi, Mamonovo) ricorda i treni merci stracolmi di rifugiati che arrivavano da Masuria in quella che oggi è la Polonia nord-orientale, sui quali tutti avevano dovuto stare per giorni e giorni. «Le donne incinte partorivano sul pavimento gelato, i morti venivano buttati fuori dai finestrini». C’erano scene allo stesso modo orribili per le strade: famiglie con carri trainati da cavalli, carretti a mano o semplicemente persone che trascinavano una valigia in mezzo al vento, alla neve e al ghiaccio, troppo deboli per abbandonare la strada se un tank russo T-34 agganciava il loro convoglio, come ogni tanto capitava.
Ma anche l’esercito tedesco, la Wehrmacht, cercò di fermare gli aspiranti rifugiati in fuga lungo le poche strade che erano ancora aperte. «Stiamo organizzando la nostra difesa, non la ritirata», dichiarò il capo delle SS, Heinrich Himmler. I leader nazisti fecero poco o nulla per proteggere la propria gente dai carri armati sovietici, dai bombardieri e dai soldati vendicativi.
Herman Fischer ricorda i profughi della Prussia orientale: «I russi arrivarono il 24 gennaio. Avemmo grandi difficoltà a convincere l”ufficiale di distretto a togliersi la sua uniforme e a nascondersi in un pagliaio. Se non ci fossimo riusciti, saremmo stati tutti condannati. Quella sera, io e mia moglie ci trovammo in piedi contro un muro, con la canna di un mitra puntata sul collo. Solo le suppliche delle ragazze polacche ci salvarono. Le figlie di Ernst L. furono violentate da un intero gruppo di combattenti russi, un calvario che durò dalle 8 di sera fino alle 9 del mattino dopo. … E’ stato l’inizio di un periodo di terribili sofferenze».
Molte persone erano così disperate che si tolsero la vita. Ma non tutti avevano a portata di mano il veleno che era stato distribuito in farmacia, con la tacita approvazione del partito nazista. Il racconto della prussiana orientale Ella Knobbe è aderente ai fatti: «Una mia conoscente, la signora Emma Stamer, che era nata a Reisberg, un villaggio vicino a Silberbach, si suicidò insieme al marito, Fritz Stamer, bevendo l’acido delle batterie perchè non poteva più sopportare la vergogna di essere stata violentata più volte davanti al marito [...]».

Innumerevoli conteggi credibili.

Nel 1950, un gruppo di storici su commissione del governo della Germania Occidentale che indagò la fuga e l’espulsione dei tedeschi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale ha raccolto più di 40.000 testimonianze dirette. Le loro scoperte sono state così scioccanti che il governo tedesco decise di non pubblicarle per molti anni. Lo storico Hans-Ulrich Wehler è convinto che Bonn temeva che «i racconti credibili di carri armati che semplicemente si fiondavano sulle colonne di rifugiati, di persone costrette a bere il contenuto delle latrine fino a perdere la vita», avrebbe suggerito alle persone di mettere in relazione i crimini dei nazisti con le sofferenze dei rifugiati.
Alcuni argomenti, come gli stupri di massa, erano una materia troppo delicata perchè la nascente Germania Ovest potesse prenderli in considerazione. Le stesso donne tacevano le loro traversie, per imbarazzo e per paura di essere stigmatizzate. Quindi semplicemente cercavano di rimuovere dalla mente i loro traumi. Le consulenze psicologiche non erano disponibili.

I ritardi nell’evacuazione provocati dai nazisti peggiorano le sofferenze.

La testimonianza N°15 dell’indagine di Bonn dà un’idea approssimativa di ciò che migliaia di donne hanno dovuto passare: E.O., 39 anni, proveniente da Elbing nella Prussa orientale era in fuga con i suoi bambini, Horst di 7 anni e Christa di un anno, quando i soldati russi li rastrellarono e la rinchiusero in una stanza appositamente preparata con altre donne.
«Sono stata violentata due volte al giorno per sette giorni, ogni volta da alcuni soldati», ha raccontato «il settimo giorno è stato il peggiore. Sono stata prelevata alla sera e rilasciata il giorno dopo. I miei genitali erano completamente sventrati, ed ero tutta dolorante dalle braccia fino alle ginocchia. Non potevo camminare, nè sdraiarmi. Vi furono altri tre giorni terribili come questo, dopo di che i soldati russi decisero che ne avevano avuto abbastanza, e ci cacciarono fuori nude nell’inferno». Insieme ad altre vittime, fu spedita in una marcia della morte – a piedi nudi. Lei è sopravvissuta ma altre 600 come lei, non ce l’hanno fatta. E persino riuscita a tornare a casa con i suoi figli, ma il suo appartamento era stato completamente saccheggiato. In qualche modo ha trovato la forza per procurarsi un carretto, e incamminarsi verso Ovest con Horst e Christa. Quando finalmente si è sentita al sicuro nel villaggio di Weyer, nel distretto di Oberlahn in Germania, ha cercato di annegarsi. E’ stata salvata all’ultimo momento.

Ogni tentativo di fuggire veniva punito.

Quante sofferenze si sarebbero potute evitare se i cinici leader nazisti non avessero ritardato l’evacuazione dei tedeschi e fosse avvenuta in tempo? Qualsiasi tentativo di fuga veniva punito. Ancora nel 1944, Himmler strepitò in un discorso ai governatori provinciali che sotto Hitler veniva «coltivato un giardino botanico di sangue germanico in Oriente».
Questa politica portò ad una tragedia umana a Breslavia, oggi conosciuta come Wroclaw, dove vennero trattenuti 700.000 abitanti, tra cui profughi e feriti, fino a quando i russi non arrivarono alle porte della città. Quasi 90.000 persone perirono per il panico che seguì l’evacuazione della città e il successivo assedio. Per contro, il governatore, Karl Hanke, riuscì a salvare la sua pelle con l’ultimo aereo che lasciò la città.
L’ordine di evacuare la Prussia orientale arrivò così tardi che i carri armati sovietici furono in grado di tagliare la strada a centinaia di migliaia di profughi quando raggiunsero il Mar Baltico. Praticamente circondata, la popolazione aveva solo una possibilità: attraversare in relativa sicurezza le zone non ancora occupate intorno a Danzica (che oggi si chiama Gdansk) – e attraversare la lacuna lastricata di ghiaccio della Vistola. Molti si gettarono sul sottile ghiaccio, il percorso di fortuna dei soldati della Wehrmacht, contrassegnato da rami di alberi che era diventato un percorso infido e mortale. Giorno e notte piovevano proiettili di artiglieria, e i bombardieri lanciavano il loro carico sui profughi in fuga, enormi crateri si aprivano nel ghiaccio, i carretti affondavano nel ghiaccio, e tutto intorno a loro i corpi congelati dei civili. [...]

Immuni all’orrore.

Quasi mezzo milione di persone riuscirono a fuggire attraverso la laguna della Vistola, e a giungere dall’altro lato. Centinaia di migliaia di persone erano già lì. Vi furono scene di caos terribili. Gli uomini portavano i parenti congelati, le donne gettavano i loro figli sulle barche che stavano partendo nella speranza che si potessero salvare. Molte famiglie si separarono per sempre. I feriti rappezzati con bende di carta insanguinate facevano la fila sulle passerelle. Centomila profughi erano già in attesa nella penisola di Hel della successiva nave di salvataggio. «C’è stato un momento difficile quando abbiamo dovuto seppellire tutti i morti uccisi dai raid aerei.», ricorda un ufficiale di marina, «I nostri uomini divennero così immuni all’orrore che i bambini e le donne morti per dissanguamento non li colpivano più».
A volte i funzionari del partito nazista fecero allestire delle imbarcazioni a loro esclusivo uso. Il Governatore della Prussia Orientale, Erich Koch, volle che i profughi venissero gettati in mare. Succedeva abbastanza spesso che, se si verificava un raid aereo, le navi di soccorso se ne andavano rapidamente via, lasciando i rifugiati al loro destino su barche a remi nel mare ghiacciato.
Una raffazzonata flottiglia di sgangherate torpediniere, navi rompighiaccio, navi da carico e navi da crociera fece disperatamente la spola da Schleswig-Holstein e Mecklenburg nel nord della Germania e in Danimarca. Le imbarcazioni, molte delle quali completamente sovraccariche di profughi, erano dei bersagli mobili per i bombardieri, i caccia e i sottomarini russi. Quasi 33 mila rifugiati morirono mentre cercavano di fuggire all’estero, 9.000 solo quando la SS Wilhelm Gustloff fu colpita dai siluri di un sottomarino sovietico, ed affondò il 30 gennaio 1945. Tuttavia, l’operazione marittima riuscì a salvare più di un milione di persone.
Più a sud, il trasferimento forzato degli abitanti tedeschi della Slesia e della Pomerania avevano già posto le basi per una sofferenza di massa ancora maggiore.Tornata alla fine dell’estate del 1944, l’Unione Sovietica aveva firmato un patto segreto con il Comitato di Liberazione Nazionale, un alleato del Cremlino, che confermava la linea Oder-Neisse come confine orientale della Polonia, al di là di quello che le future conferenze con gli alleati occidentali avrebbero deciso in un momento successivo . In tal modo, la Russia si era assicurata una regione abitata da circa 7,5 milioni di tedeschi.
La prima grande alluvione di rifugiati iniziarono ad affluire da lì diretti ad ovest nel gennaio 1945. Nei mesi successivi, più di 3 milioni di tedeschi cercarono di fuggire quando arrivò l’Armata Rossa.
Quando i sovietici e i polacchi divisero il paese in cinque voivodati, o distretti amministrativi, nel marzo dello stesso anno – sempre in segreto – il reinsediamento forzato dei tedeschi era già stato progettato nei minimi dettagli. Iniziò immediatamente dopo la cessazione delle ostilità, prima nella nuova Polonia occidentale e poi in Pomerania, Slesia, Masuria e nella regione di Danzica a partire dalla metà di giugno.
Gli organizzatori vollero che il reinsediamento fosse “veloce e spietato,” e anche che venisse ricordato dai sopravvissuti come una ‘espulsione selvaggia’. Con l’appoggio di agenti di polizia e miliziani, le unità dell’esercito circondato gli abitanti nelle loro città e nei loro villaggi.
«I tedeschi devono essere trattati come ci hanno trattato,» fu l’ordine dei vertici della seconda Armata polacca. L’obiettivo era di essere così «duri e decisi» che i tedeschi dovevano fuggire di propria iniziativa. «I parassiti tedeschi dovrebbero ringraziare Dio che hanno ancora la testa sulle spalle», tuonò un generale.

Le torture e gli omicidi sistematici.

Le torture e gli omicidi sistematici erano comuni in molti campi di detenzione polacchi. Si stima che circa 60.000 tedeschi morirono in questo modo. Innumerevoli altri candidati alla deportazione vennero picchiati, depredati e umiliati prima di venire ammassati sui treni merci dirette verso l’Occidente. Molti morirono per la violenza e per lo stress associati a queste deportazioni in treno.
L’espulsione fu applicata a tutti i tedeschi. Polacchi che erano stati classificati come cittadini tedeschi sotto il nazismo dovevano essere sottoposti a delle procedure di ‘riabilitazione’. Chi veniva respinto, veniva espulso come ‘elemento ostile’. Una legge emanata il 6 maggio 1945 minacciò con la pena di morte tutti i polacchi che avevano aiutato queste persone.
Le deportazioni di massa continuarono fino alla fine del 1946. Il 17 dicembre di quell’anno, circa 1.800 tedeschi furono cacciati fuori dalla regione e dai dintorni della città di Stolp (oggi conosciuta come Slupsk). Alle 7 venne detto loro che avevano tempo fino a mezzogiorno per lasciare la città. Una delle persone colpite ha raccontato agli investigatori tedesco-occidentali della commissione parlamentare che la maggior parte del loro bagaglio fu rubato da un cortile, «dove un polacco, con una frusta in mano, ci picchiava selvaggemente». Ricordò anche che alcuni «uomini e donne furono fatti denudare. E gli vennero tolti i gioielli e gli oggetti preziosi che avevano con loro». Le ultime persone espulse dovettero aspettare alla stazione ferroviaria fino a tarda notte, con una temperature di 20 gradi sottolo zero, prima di miliziani, prendendoli a calci, gli spingessero su treni merci non riscaldati.
Molti polacchi erano stati cacciati ad ovest dai sovietici durante l’occupazione russa della Polonia orientale. Alcuni di loro dunque simpatizzavano con i tedeschi braccati, e cercarono di aiutarli. Il nuovo capo amministrativo della Bassa Slesia minacciò di punire «l’uso indiscriminato ed eccessivo di crudeltà». Ma ebbe poco impatto sulla brutalità con cui i tedeschi vennero cacciati.

Le proteste arrabbiate dell’Occidente.

I politici ed i giornali in Occidente protestarono contro la violenza. I primi treni carichi di miserabili stavano ancora viaggiando verso l’occidente anche se la Conferenza di Potsdam era ancora in corso. Alla stazione di Lehrter Bahnhof a Berlino, i soldati americani tirarono fuori dai vagoni merci che arrivavano una decina di cadaveri al giorno. L’arrivo di una nave che trasportava 300 bambini mezzi morti di fame a Westhafen (Berlino) provocò delle rabbiose proteste. Il governo americano era profondamente indignato. Il Dipartimento di Stato scrisse un cablogramma in Polonia, lamentandosi di quello che i funzionari Usa descrissero come una massa di persone maltrattate, deboli e indifese, e ridotte in miseria.
Nel tardo autunno 1945, l’emigrato tedesco Robert Jungk parlò così della ‘terra della morte’ nell’est: «Abbiamo letteralmente tirato un sospiro di sollievo: abbiamo lasciato la zona polacca e siamo entrati nella zona occupata dai russi. Ci eravamo finalmente lasciati alle spalle i saccheggi delle città, i villaggi colpiti dalle malattie, i campi di concentramento, la desolazione dei campi abbandonati e le strade disseminate di corpi lungo le quale i banditi aspettavano di derubarci dei nostri ultimi averi».
Poichè la Wehrmacht si era ritirata dalla Cecoslovacchia solo ai primi di maggio del 1945, più di 3 milioni di tedeschi si trovarono all’improvviso completamente indifesi. Il 5 maggio, una rivolta di comunisti e gruppi nazionalisti radicali si scaglio contro gli ultimi occupanti. Anche qui, le persone di etnia tedeschi vennero cacciate.
«L’eliminazione della minoranza tedesca», che era stata prevista dal governo ceco in esilio nel 1944, divenne la politica ufficiale del Fronte Nazionale Ceco, e fu perseguita senza pietà sino ai primi giorni di aprile del 1945. I principali attori furono i partigiani e le forze appartenenti alla “Svoboda Army”, che era costituita dalle unità ceche che aveva combattuto a fianco dell’Armata Rossa. In tutto il paese, i tedeschi dei Sudeti furono costretti ad andarsene.
Migliaia di tedeschi che vivevano a Praga furono internati, derubati e maltrattati. Else S., che era stata trattenuta presso la tenuta di campagna di un principe, un certo von Lobkowitz, descrisse in seguito come fu costretta a lavorare «dalla mattina presto fino a notte» per 13 mesi. «Il cibo», ha raccontato, «era disponibile nei trogoli dei suini. … Eravamo così affamati che abbiamo mangiato anche le esche avvelenate per i topi che avremmo dovuto mettere in giro per i sacchi di patate. Un vecchio andò a prendere un barattolo di latta dalla spazzatura e fu catturato da una guardia. Siamo stati messi tutti in fila e vedere come il vecchio, che era stato fatto spogliare fino alla cintola, stava su una gamba con le braccia alzate e gridava: ‘Ringraziamo il nostro Führer – per tutto il tempo che riuscì a stare in piedi, coperto di sangue. Poi svenne».
Dopo la caduta delle forze armate tedesche, in città come Tetschen (Decin), Aussig (Usti nad Labem) e Königgrätz (Hradec Kralove), vennero uccisero migliaia di persone.
Le scuse erano facili da trovare. Ad esempio, quando divampò un incendio in una fabbrica di Aussig, venne subito puntato il dito contro i sabotatori tedeschi. Allora una folla armata mise in scena un bagno di sangue in cui si stimò che 2.000 persone, in gran parte anziani, donne e bambini, furonopicchiate a morte, fucilate o semplicemente buttate giù dal ponte nel fiume Elba.
Il 30 maggio 1945, alle 9 della sera, ai 27 mila abitanti tedeschi di Brünn (Brno) vennero dati solo dieci minuti per vestire i propri figli e fare le valigie. Uomini armati li costrinsero poi in lunghe colonne ad abbandonare la città e a marciare verso l’Austria. Donne e bambini furono internati in campi all’aperto per molti mesi. Uno scrittore del quotidiano britannico Daily Mail raccontò in un articolo come il campo era «diventata un campo di concentramento». Queste intimidazioni si rivelarono efficaci: i tre quarti di un milione di tedeschi erano stati cacciati fuori dal paese, prima ancora che la loro espulsione venisse considerata legittima dalla Conferenza di Potsdam.

L’interpretazione di Stalin delle ‘riparazioni in natura’.

Di volta in volta, gli ufficiali occidentali cercarono di intervenire per fermare le espulsioni violente. Gli infermieri americani si prendevano cura delle vittime di azioni violente, ma la morte si diffuse nei campi di internamento temporaneo attraverso la fame, il tifo e gli abusi.
Robert Murphy, il consigliere politico del governo militare americano a Berlino, riferì che «sgomberi senza scrupoli si sono verificati su una scala sufficientemente grande che molte delle nostre truppe cominciano a considerare con ostilità il popolo Ceco liberato».
Dopo la Conferenza di Potsdam, il Comitato di controllo degli Alleati aveva richiesto delle soluzioni più ordinate. Il leader dell’indipendenza ceca, Edvard Benes, e in seguito divenne Presidente, promise di procedere in modo «umano, dignitoso, nel rispetto della legalità, e moralmente giustificabile», e di punire gli abusi. Ma le umiliazioni per la stragrande maggioranza dei circa 2,5 milioni di tedeschi ancora in attesa di deportazione proseguirono senza interruzioni. E dovevano indossare ancora un distintivo bianco con un ‘N’ nera (che stava per ‘Nemecky’) per poter essere identificati come tedeschi. Gli erano vietati i mezzi di trasporto pubblico, i bar, l’accesso ai parchi, e dovevano togliersi il cappello in presenza di funzionari cechi.
Le forze di occupazione americane in Germania assistettero impotenti, senza poter impedire tutto ciò. Il Generale Lucius D. Clay, comandante delle forze Usa in Europa, si lamentò delle molestie dei cechi e delle «difficoltà» con le autorità responsabili per la deportazione, che inizialmente «ci negarono giovani, in grado di lavorare, mentre ci mandavano gli anziani, le donne e i bambini piccoli». Clay descrisse lo spettacolo degli espulsi che scendevano dai carri merci al loro arrivo nel settore americano come uno spettacolo «pietoso».
Eppure il destino peggiore era quello che attendeva i tedeschi più giovani e più forti. All’inizio del 1945, le autorità sovietiche iniziarono raccogliere lavoratori per aiutare a ricostruire il paese, devastato dalla guerra.L’obiettivo era quello di utilizzare il lavoro di schavi tedeschi nelle miniere sovietiche, nei cantieri edili, nelle aziende agricole e nelle foreste di legname.
Infatti, durante la Conferenza di Yalta, nel febbraio del 1945, era stata promessa all’Unione Sovietica una ‘riparazione in natura’. L’ interpretazione di Stalin di questo gergo diplomatico era diventato un incubo per più di 700.000 uomini e donne tedesche, che trascorsero settimane nei treni che li portavano nei campi di lavoro, in alcuni casi, al di là degli Urali. Le condizioni sia durante il trasporti e sia nei campi erano così terribili che circa 270.000 deportati morirono.
Eva-Maria S. aveva solo 16 anni quando fu rapita dai russi in questo modo. Raccontò la storia della sua deportazione in Siberia in una serie di testimonianze rese all’ ex- attivista dei diritti umani della Germania orientale Freya Klier [...].
«Eravamo circa 90 nel nostro carro merci quando siamo partiti. Il nostro viaggio ci portò attraverso la Polonia, dove le pietre spesso si fracassavano contro le pareti dei vagoni. Non riesco più a ricordare tutti i dettagli di quel viaggio, sò solo che molte persone morirono nel nostro vagone [...]»
Mentre il treno attraversava le rovine che erano rimaste in seguito allo sforzo bellico della Germania nazista, molti prigionieri capirono perché i vincitori erano così assetati di vendetta.
Raccontò Eva-Maria: «Credo che la Bielorussia era nello stato peggiore. Guardando attraverso il filo spinato dei finestrini tutto quello che potevamo vedere era terra bruciata, villaggi distrutti e le fabbriche sventrate».
(Tradotto da un articolo di Christian Habbe, Der Spiegel, 28 maggio 2011)

3 commenti:

  1. Every time I read about this forgotten chapter in history it makes me feel sad. It all seems so unnecessary.

    RispondiElimina
  2. LA CATTIVERIA E LA FOLLIA UMANA NON CONOSCE LIMITI , MA UN GIORNO DIO FARA' GIUSTIZIA DI TUTTO

    RispondiElimina
  3. La guerra è il frutto della follia che vive nella mente umana allorquando prevale sulla ragione.

    RispondiElimina

Palun, sisestage oma kommentaar...
Per favore, lasci un commento qui...
Please, enter Your comment...