Nel paese dalle notti bianche
Vita e anima del popolo estone
Stando a quel che ne dicono gli archeologi, fu circa duemilacinquecento anni fa che alcune tribù di quella razza designata col nome incerto di «ugro-finni» lasciarono il centro della Russia dove bivaccavano tra Volga e Urali e vennero a stabilirsi al 59° Nord in riva al Baltico: probabilmente perchè il luogo d'origine era diventato troppo poco sicuro con tutto quel movimento emigratorio e non vi si poteva più lavorare in pace la terra. Ottima la ragione, ma pessima la scelta. E gli estoni se n'accorsero alcuni secoli dopo, quando, svegliatisi dal letargo danesi, svedesi, tedeschi e polacchi uno dopo l'altro o tutti insieme calarono su quell'angolo di terra a contendersene il dominio. Sino al 12.o secolo dopo Cristo non ci fu che qualche spedizione punitiva di Vichinghi, a cui gli estoni risposero come si doveva una volta per tutte saccheggiando Sigtuna e obbligando gli svedesi a trasportare la capitale a Stoccolma. Ma a partire da quel momento gl'indesiderati ospiti cominciarono ad arrivare non più a dosi omeopatiche di piccoli legni corsari, ma a eserciti interi. E quegli eserciti non erano solo armati di spade e corazze ma anche della Croce Cristiana; e ognuno sa quali grossi inconvenienti hanno sempre accompagnato le colonizzazioni intraprese nel nome della sublime religione dell'Amore. I primi impresari furono i cavalieri dell'Ordine Teutonico aiutati dai danesi, poi nel 1583 l'accollo passò a polacchi e svedesi; poi agli svedesi soltanto (ed è questo periodo, che va dal 1625 al 1710, che gl'indigeni intendono designare colla formula «il buon tempo antico»); finché la finestra baltica di Reval non cominciò a stuzzicare gli appetiti di quello strano re contadino maniaco di navi e di mare che fu Pietro il Grande. Così cominciò il periodo russo del Ducato Baltico il quale non si trasformò in repubblica indipendente che nel 1920 in seguito alla guerra e alla rivoluzione.
La donna
Nell'antichità gli estoni furono chiamati «hominum humanissimi». Ma io credo che questa lusinghiera definizione venisse loro più da una povertà del divino che da una ricchezza dell'umano. Infatti il nome ch'essi si dettero per primo fu quello di «maa rahvas» che vuol dire uomini della terra. E alla terra rimasero e rimangono attaccati anche dopo che la conversione coatta al Cristianesimo ebbe cercato di persuaderli che sopra la terra c'è un cielo. Gli estoni accettarono il cristianesimo ma al cielo continuarono a non crederci e neanche oggi ci credono: è di due anni fa la tesi di laurea di una studentessa di Tartu nella quale si dimostrava la necessità, per ragioni di coerenza nazionale, di tornare al culto del vecchio Dio Taara, dio di terra, galantuomo bonaccione e economo per giunta, che nei sacrifici si contentava di poche gocce di sangue sulla nuda pietra. «Humanissimi» han ragione di chiamarsi gli estoni, ma solo per il loro carattere positivo —francamente e soltanto positivo— che fa di essi un'isola nel magno e confuso mare dei popoli nordici genericamente caratterizzati da una forte propensione alla speculazione cosmica e al senso del mistero. Gli estoni non hanno nessuna capacità speculativa e scarse capacità intellettuali. Fortissime invece la qualità morali nel senso di un carattere tenace fino alla cocciutaggine, ma controllato dalla furberia e dalla prudenza. Sono dei costruttori nati. L'intelligenza è surrogata da una sensitività delicatissima che si rispecchia nella lingua: una lingua morbida e dolce, riccamente vocalizzata, ma priva dei termini anche più elementari per esprimere i «concetti»; doviziosa invece nel campo delle cose e dei sentimenti; con perfette onomatopeie; con sfumature sottili per esprimere le più lievi differenze di suoni, di colori, di profumi; con continue indulgenze alle necessità musicali del linguaggio. Chiusi sul proprio mistero, incapaci persino di supporne l'esistenza, gli estoni sono invece chiarissimi sul inondo esterno. Il loro rapporto è uno solo e diretto: uomo-natura.
Venuti a stabilirsi nel Nord da tempo immemorabile, gli estoni tuttavia non hanno nulla a che fare coi nordici propriamente —seppur vagamente— detti. L'opposizione anzi è fondamentale rispetto ai vicini di casa scandinavi e si manifesta sopratutto nell'atteggiamento della donna (al disopra di un certo parallelo è la donna, non l'uomo, che decide). Anche qui siamo in regime amazzonico, ma l'amazzonismo estone è di marca ben diversa di quello, poniamo, svedese. La poligamia delle donne estoni non ha nulla di dilettantesco, e, a parte lo snobismo di certi ceti metropolitani, è controbilanciata dalla coscienza del peccato. In Estonia è ancora possibile una sistematica femminile basata sui due concetti capitali —invenzione meridionale e cattolica— della vergine e della prostituta. Mentre il Nord protestante non conosce questi due concetti o li confonde nel torbido problema della sessualità. La donna estone è molto meno problematica della scandinava, anzi non lo è affatto: fa all'amore più di quanto ne parli e si pone dinanzi all'uomo senza l'ansia dell'interrogativo sessuale; è capace di devozione: è insomma, dal nostro punto di vista, infinitamente più morale, anzi è morale senz'altro. L'amazzonismo non nasce da ragioni di slegamento sessuale della femmina dal maschio come in Scandinavia ma da semplici contingenze di clima e di necessità di lavoro: non è sostanzialmente diverso da quello che vige nelle nostre classi rurali, dove la massaia, che lavora la terra con l'uomo, alleva i figli, tiene la casa, ricava dalla preponderanza delle sue funzioni un prestigio altrettanto preponderante. Infatti il femminismo in Estonia non alligna. Il femminismo nasce dalla cattiva coscienza, cioè da un complesso d'inferiorità, della donna rispetto all'uomo, esattamente come la teoria della superiorità delle razze nasce dall'oscuro tormento di una propria inferiorità. Questa cattiva coscienza nelle donne estoni non c'è ed è naturale che non ci sia.
Venuti a stabilirsi nel Nord da tempo immemorabile, gli estoni tuttavia non hanno nulla a che fare coi nordici propriamente —seppur vagamente— detti. L'opposizione anzi è fondamentale rispetto ai vicini di casa scandinavi e si manifesta sopratutto nell'atteggiamento della donna (al disopra di un certo parallelo è la donna, non l'uomo, che decide). Anche qui siamo in regime amazzonico, ma l'amazzonismo estone è di marca ben diversa di quello, poniamo, svedese. La poligamia delle donne estoni non ha nulla di dilettantesco, e, a parte lo snobismo di certi ceti metropolitani, è controbilanciata dalla coscienza del peccato. In Estonia è ancora possibile una sistematica femminile basata sui due concetti capitali —invenzione meridionale e cattolica— della vergine e della prostituta. Mentre il Nord protestante non conosce questi due concetti o li confonde nel torbido problema della sessualità. La donna estone è molto meno problematica della scandinava, anzi non lo è affatto: fa all'amore più di quanto ne parli e si pone dinanzi all'uomo senza l'ansia dell'interrogativo sessuale; è capace di devozione: è insomma, dal nostro punto di vista, infinitamente più morale, anzi è morale senz'altro. L'amazzonismo non nasce da ragioni di slegamento sessuale della femmina dal maschio come in Scandinavia ma da semplici contingenze di clima e di necessità di lavoro: non è sostanzialmente diverso da quello che vige nelle nostre classi rurali, dove la massaia, che lavora la terra con l'uomo, alleva i figli, tiene la casa, ricava dalla preponderanza delle sue funzioni un prestigio altrettanto preponderante. Infatti il femminismo in Estonia non alligna. Il femminismo nasce dalla cattiva coscienza, cioè da un complesso d'inferiorità, della donna rispetto all'uomo, esattamente come la teoria della superiorità delle razze nasce dall'oscuro tormento di una propria inferiorità. Questa cattiva coscienza nelle donne estoni non c'è ed è naturale che non ci sia.
Un popolo che canta
Neanche nel concetto e nell'adorazione della pulizia gli estoni si accomunano coi popoli del Nord. La pulizia, come i nordici l’intendono, è una cosa complessa che non si limita al trattamento esterno, ma implica anche un atteggiamento psicologico che si potrebbe definire con la formula generica «rinunzia alla storia». La storia la fanno i popoli sudici. Nell'orrore degli scandinavi —un orrore sincero purtroppo— per il sangue, l'ambizione, la violenza, è la misura esatta del loro stato di decomposizione. Gli estoni al contrario accettano la storia cioè il pericoloso vivere. Il loro nazionalismo è forse più geloso che ambizioso, ma anche questo carattere trova la sua spiegazione nella predominanza anzi nel monopolio, nella vita estone, del piccolo proprietario contadino. Tutti in Estonia sono piccoli proprietari contadini: il presidente della repubblica, l'ufficiale, il libero professionista. I popoli cosiffatti sono quadrupedi che il peso del corpo lo spostano tutto sulle zampe di dietro: popoli a maturazione lenta, conservatori non per programma o per partito preso, ma per istinto, diffidenti, impermeabili alle idee. Delle idee, che non possiedono, hanno una nostalgia grande. In un certo senso le accettano tutte, ma dopo esservisi baloccati un po' le posano come ragazzi capricciosi e annoiati. Questo dà un'impressione illusoria di grande mutevolezza, come si trattasse, invece che di un popolo, di una carovana. Ma poi ti accorgi che questa carovana è immobile e che non c'è nulla che possa toglierla a quella immobilità.
L'unica cosa che gli estoni hanno a comune coi veri nordici è la aspirazione al canto. (Ma qui c'è un equivoco grosso. In genere si crede che i meridionali cantino più dei settentrionali ed è su questo equivoco che si fonda una buona percentuale dell'ammalato struggimento dei nordici per il Sud. Ma a Stoccolma si canta infinitamente più che a Napoli e —differenza ancora più significativa— si rispetta chi canta. Noi italiani cantiamo molto meno, lo facciamo senza accorgercene e dopo ce ne vergognamo. La religione del canto da noi non esiste e i suoi sacerdoti, anche i più grandi, li consideriamo come fortunati déclassés). Anche l'Estonia aspira al canto, lo studia, se ne inorgoglisce, gli dedica immense arene per farne spettacolo di massa e quasi espressione riassuntiva del genio nazionale. Sono i «Laulupidu», cioè il parlamentarismo applicato al do di petto: migliaia di rappresentanti delle virtù canore delle diverse provincie, adunati sotto la presidenza del «Decano dello Stato» che altri non è che il presidente della repubblica, compongono le grandi assise del canto nazionale e offrono uno spettacolo veramente indimenticabile. Ma anche questo canto, come tutto ciò che gli estoni esprimono —compresi i campanili e le torri—, non aspira punto al cielo, resta aderente alla terra, è anche lui umano e soltanto umano.
L'unica cosa che gli estoni hanno a comune coi veri nordici è la aspirazione al canto. (Ma qui c'è un equivoco grosso. In genere si crede che i meridionali cantino più dei settentrionali ed è su questo equivoco che si fonda una buona percentuale dell'ammalato struggimento dei nordici per il Sud. Ma a Stoccolma si canta infinitamente più che a Napoli e —differenza ancora più significativa— si rispetta chi canta. Noi italiani cantiamo molto meno, lo facciamo senza accorgercene e dopo ce ne vergognamo. La religione del canto da noi non esiste e i suoi sacerdoti, anche i più grandi, li consideriamo come fortunati déclassés). Anche l'Estonia aspira al canto, lo studia, se ne inorgoglisce, gli dedica immense arene per farne spettacolo di massa e quasi espressione riassuntiva del genio nazionale. Sono i «Laulupidu», cioè il parlamentarismo applicato al do di petto: migliaia di rappresentanti delle virtù canore delle diverse provincie, adunati sotto la presidenza del «Decano dello Stato» che altri non è che il presidente della repubblica, compongono le grandi assise del canto nazionale e offrono uno spettacolo veramente indimenticabile. Ma anche questo canto, come tutto ciò che gli estoni esprimono —compresi i campanili e le torri—, non aspira punto al cielo, resta aderente alla terra, è anche lui umano e soltanto umano.
Paesaggio fantomatico
Infine c'è il paesaggio, il quale è un paesaggio prerusso con la sua lentezza sonnacchiosa e la sua luce d'acquario. Tutto teso, come un panno a asciugare e foreste e foreste d'abeti con laghetti bianchi, tondi e immobili come in un parco e fiumi tirati col righello. Un paesaggio pigro, impigrito anche dal semestre e più di quasi perpetua notte. Quando la primavera, come ora avviene, lo sveglia, ha un'aria sbalordita e tarda a ritrovar la coscienza della realtà. I germogli esitano sui tronchi ischeletriti, un lucciolio di timidi umori lacrima pei rami, i cieli spalancatisi a un tratto sono lontani e morbidi e sembra che dietro ad essi ci siano ancora altri cieli. Ne sgronda una luce bianca che, in quella che dovrebbe esser la notte, si sopravvive in un colaticcio rappreso, un lucore iperboreo, irritante e divertente, come di un'alba abortita. La bellezza delle notti bianche è mostruosa come quella delle eclissi, i profili delle cose vi trasognano, tutto slitta —anche i pensieri— sopra un viscido fango biancastro, il più amletico dei dubbi sul tuo essere, sull'essere in genere, ti attanaglia. Se questi crepuscoli di latte quagliato vai a passeggiarteli in barca sul mare, su questo inerte e crudele Baltico che non t'invoglia neanche al suicidio, se perdi anche il tatto della terra ferma, hai l'impressione del sospeso fra cielo e terra, dell'incorporeo spazio: mescolata e orrida impressione dove tutto c'è fuor che il piacere.
Perchè di piacere questa terra del Nord non te ne dà che uno: quello di pensare che non è la tua.
Perchè di piacere questa terra del Nord non te ne dà che uno: quello di pensare che non è la tua.
Autore: Indro Montanelli per il quotidiano La Stampa, mercoledì 15 giugno 1938, pagina 3.
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